Dispositivi indossabili, e se fossero una grande bufala?
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Tecnologia

Dispositivi indossabili, e se fossero una grande bufala?

Negli Usa, chi li prova, una volta su tre li abbandona entro sei mesi. Ecco perché i wearable rischiano il flop

Le previsioni, in effetti, dicono l’esatto contrario: secondo la società di ricerca Canalys, a fine 2014 saranno 17 milioni i braccialetti intelligenti in vendita sul mercato, contro gli 1,6 milioni del secondo semestre del 2013. L’offerta sugli scaffali sarà maggiore di oltre dieci volte. E crescerà fino a 23 milioni nel 2015, toccando quota 45 milioni nel 2017.

Tutto normale, visto il già annunciato ingresso nell’arena di operatori del calibro di Google, che neanche un mese fa ha comunicato di voler andare oltre i Glass per tentare la strada degli smartwatch; il probabile contributo di Apple, che può contare su una cospicua fetta di fedelissimi pronti a sposare ogni nuova avventura della mela; gli investimenti milionari di Microsoft e Intel. Per non parlare delle proposte già in vendita o prossime al debutto di Samsung, LG, Sony e compagnia.

Eppure, nonostante ogni indizio dimostri che i dispositivi indossabili saranno la nuova, grandissima, inarrestabile tendenza in campo tecnologico, altri elementi suggeriscono che è quantomeno lecito predicare prudenza. Anche perché non si tratta di previsioni, sensazioni, ma di sondaggi, di osservazioni di esperienze reali. Di fatti, insomma. Fotografati da una ricerca svolta dalla società di consulenza Endeavour Partners negli Stati Uniti, mercato che generalmente anticipa le dinamiche che si riproducono altrove. Il documento, corposo e ben argomentato, si chiama «Inside Wearables».

A pagina 4 c’è un paragrafo dal titolo che cattura subito l’attenzione: «Il segreto sporco dei dispositivi indossabili». Il segreto è che più della metà dei consumatori di Oltreoceano che hanno acquistato un sistema per tenere d’occhio attività fisica e affini, non lo usa più. E un terzo degli utenti dice addio a questo dispositivo nel giro di sei mesi. Un bel colpo, soprattutto se si pensa che è l’esatto opposto di quanto avvenuto con smartphone e tablet, la cui forza è dare dipendenza, diventare indispensabili. Abbiamo vissuto per secoli, millenni, decenni se vogliamo considerare come riferimento la prima era dei cellulari, senza consultare la posta, chattare, navigare, vedere video in mobilità, ma da quando sappiamo che è possibile, non ne facciamo più a meno.

Il contrario di quanto invece, stando alla ricerca, avviene con braccialetti e orologi intelligenti affini. Un po’ per curiosità, un po’ perché attratti dalla moda, li proviamo, gli diamo fiducia. Poi, però, almeno in un caso su due, li lasciamo nella scatola, in un cassetto, o a prendere polvere in un qualche angolo della casa. Perché? Lo dice un’altra ricerca, che rinforza la precedente ed è firmata dalla CCS Insight: chi ha uno di questi braccialetti, smette di usarlo in quattro casi su dieci perché lo trova noioso o, più semplicemente, perché dimentica di indossarlo.

Vero, qualcuno potrebbe suggerire che si tratta di una lettura parziale, a tesi, che non si guarda il rovescio positivo della medaglia. Ovvero che la metà delle persone, o sei su dieci, a seconda dell’analisi che si prende per buona, continua a utilizzarli. Francamente, però, questa argomentazione non tiene: se scoprissero che il 40 o il 50 per cento dei loro utenti lascia con noncuranza lo smartphone a casa, Apple, Samsung, Nokia e tutti gli altri, cadrebbero nel panico. E con loro tutta la filiera di chi campa con app, pubblicità, accessori e simili.

Comunque, i produttori non possono cadere dal pero di fronte a queste statistiche. A ottobre del 2013 era trapelata la notizia che il 30 per cento dei clienti che aveva comprato uno smartwatch Galaxy Gear della Samsung da Best Buy, gigante americano nella vendita di elettronica di consumo, lo riportava indietro; diversi tagli di prezzo di molti prodotti hanno dimostrato che qualcosa non sta funzionando e anche diversi test svolti in prima persona hanno lasciato a chi scrive più di un dubbio sull’effettiva utilità di questi strumenti di vari brand. Per la durata risicata se non ridicola della batteria; la macchinosità delle configurazioni e del funzionamento; la facilità con cui si inganna un activity tracker, che pensa che stiamo camminando o addirittura correndo se gesticoliamo con troppa foga.

A conti fatti, questa prima generazione di dispositivi, se non è un flop, è ancora immatura per fare breccia come dovrebbe. O almeno come vorrebbero i produttori. Forse un contributo sostanzioso di giganti dei chip come Intel (o Qualcomm, che anche è della partita), aiuterà ad aumentare l’autonomia e a rendere più efficace la resa di bracciali e orologi smart. Mentre l’ingresso di Google e Apple, che oltre al lato estetico potranno dare contributi sul piano del software, sulle funzioni uniche o almeno evolute degli indossabili, aiuterà a invertire la tendenza. Evitando che gli indossabili si rivelino, anziché il prossimo miracolo dell’hi-tech, un clamoroso buco nell’acqua.

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Marco Morello

Mi occupo di tecnologia, nuovi media, viaggi, società e tendenze con qualche incursione negli spettacoli, nello sport e nell'attualità per Panorama e Panorama.it. In passato ho collaborato con il Corriere della Sera, il Giornale, Affari&Finanza di Repubblica, Il Sole 24 Ore, Corriere dello Sport, Economy, Icon, Flair, First e Lettera43. Ho pubblicato due libri: Io ti fotto e Contro i notai.

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