Il Grande fratello antiterrorismo
Tecnologia

Il Grande fratello antiterrorismo

Migliaia di telecamere gestite da supercomputer: riconoscono i volti, trovano i ricercati in mezzo alla folla, analizzano e interpretano i comportamenti umani. Viaggio nella tecnologia che permetterà di individuare in tempo reale attentatori come i due fratelli di Boston. E nello Utah un centro ultrasegreto spierà tutto il mondo. Per catturare terroristi prima che entrino in azione. In stile «Minority report».

Lo schermo è circolare come l’edificio che lo contiene. È un display grande come quello di un’enorme sala cinematografica: proietta le immagini di migliaia di videocamere che sorvegliano un’intera città, mentre un sofisticato sistema di intelligenza artificiale (realizzato dalla Ibm) le analizza e cerca di scovare comportamenti sospetti per prevenire furti, rapine, incendi e, specialmente, atti di terrorismo. Siamo all’interno dell’Oemc (Office of emergency management & communications) di Chicago, negli Stati Uniti. Una sala di controllo a forma di torre completamente in cemento armato capace di resistere anche ad attacchi nucleari. L’Oemc è alimentato da una pila atomica in grado di garantire energia anche se il mondo intorno dovesse spegnersi. Un posto con alloggi e viveri sufficienti per far sopravvivere un anno il centinaio di persone che lo popolano: ufficiali di polizia, Fbi, pompieri, Homeland security e personale di coordinamento con gli ospedali della zona. Quella di Chicago è una delle tante strutture costruite sul suolo americano dopo l’11 settembre 2001. È in posti come questo che vengono affrontati i casi come l’attentato alla maratona di Boston.

Panorama ha avuto accesso a questo esclusivo centro di sicurezza nato con lo scopo di gestire le emergenze e coordinare gli interventi interforze. Un bunker in grado di analizzare e interpretare l’immenso flusso di video registrati dalle videocamere di tutta la città. Non solo quelle installate dalla polizia a protezione di indirizzi delicati, ma proprio tutte, comprese quelle di distributori di benzina, bancomat, supermercati, cinema, autobus e metropolitane.

Nel caso degli attentatori di Boston le forze dell’ordine hanno chiesto ai cittadini di inviare alle autorità anche foto e video realizzati con i propri smartphone. In meno di 24 ore sono stati sommersi da uno tsunami composto da migliaia di ore di video e decine di migliaia di foto. Un reportage amatoriale così vasto che ci sarebbero voluti centinaia di uomini e un paio di mesi per esaminarlo tutto. Ma è qui che entra in gioco la tecnologia che interpreta gli «human behaviour», ossia i comportamenti umani. Un algoritmo che permette di scovare tra il pubblico eventuali attentatori, evidenziare i loro movimenti sospetti e soprattutto identificarli in pochissimo tempo. I computer poliziotto ora sono in grado di accorgersi dell’abbandono di uno zainetto, della presenza di un cecchino su un tetto, di scovare un volto o un cappellino tra migliaia, di rilevare spari e gas nocivi.

Stiamo andando verso un’era in cui saremo sempre sotto controllo. Secondo un’attenta analisi fatta dal quotidiano britannico The Guardian, ogni giorno un cittadino che si reca per lavoro nella City di Londra viene ripreso almeno da 300 telecamere. E se, da un lato, la videosorveglianza previene e combatte il crimine, dall’altro preoccupa chi vede in questi sistemi uno strumento di violazione della propria privacy. Quello di Chicago, infatti, è solo uno dei sistemi utilizzati sul suolo americano per prevenire i crimini. Secondo le rivelazioni fatte da Wikileaks e riportate dal Guardian, a Washington e a Seattle per interpretare i comportamenti umani viene utilizzato un software chiamato Trapwire messo a punto dall’omonima società, che è stata fondata da ex agenti della Cia. Recentemente ha fatto scalpore anche un’inchiesta condotta dal mensile americano Wired che ha rivelato al mondo e agli americani l’esistenza di un enorme centro di spionaggio a Bluffdale, in mezzo alle montagne dello Utah, che sarà terminato nel prossimo mese di settembre: complesso fortificato e impenetrabile che ha dimensione quintupla rispetto al Campidoglio (oltre 92 mila metri quadrati) ed è costato, secondo le fonti di Wired, oltre 2 miliardi di dollari.

Gestita da appaltatori con contratti segreti, questa centrale è stata laconicamente battezzata Utah data center, ma è stata costruita su incarico della National security agency americana. Il suo scopo? Intercettare, decifrare, analizzare e memorizzare vasti pacchetti di dati provenienti dalle reti di comunicazione di tutto il mondo. Un po’ come è preconizzato da Person of interest, una serie tv di successo in cui «the machine», la macchina, come viene chiamata dai protagonisti, è in grado di incrociare ogni tipo di informazione digitale per scoprire, in anticipo, possibili attentati. Lo stesso faranno i supercomputer dello Utah data center che, secondo quanto rivelato da Wired, «potranno controllare ogni forma di comunicazione, compreso il contenuto delle email private, le telefonate dai cellulari e le ricerche di Google, così come tutti i flussi di informazioni recanti dati personali come ricevute di parcheggio, itinerari di viaggio, acquisti in libreria e così via». Questa enorme quantità di dati verrà memorizzata in un database praticamente «senza fondo».

I supercomputer dello Utah cercano particolari schemi linguistici e li riconoscono, decifrano codici, scovano connessioni fra parole scritte e raccontate al telefono con azioni e comportamenti digitali. Tutto per trovare un nesso, un filo che conduca a una cellula di terroristi e ad anticiparne le azioni.

Nello Utah data center si coordineranno le informazioni che arrivano da migliaia di fonti e che prima venivano analizzate da centri differenti. Non solo riguardanti la protezione del suolo e dei cittadini americani ma provenienti da tutto il mondo. Un esempio: lo Utah data center utilizzerà quattro satelliti geostazionari in grado di ascoltare qualsiasi cosa, dai walkie-talkie in Corea del Nord ai cellulari libici. Ogni informazione sarà registrata e salvata in memorie così grandi che, per l’occasione, è stata creata una nuova unità di misura per l’archiviazione digitale: lo Yottabyte. Noi tutti siamo abituati a parole come megabyte e gigabyte (1 milione di byte o 1 miliardo di byte), unità che attualmente misurano la capacità di computer, smartphone o tablet. Lo yottabyte è un termine il cui prefisso yotta deriva dal greco okto che, in questo caso, indica l’ottava potenza di 1.000, ossia un quadrilione di byte. Nello Utah data center ci sono memorie in grado di archiviare milioni di Yottabyte. D’ora in poi, quindi, «attenti a quello che dite» ammonisce Wired, nello Utah potrebbe esserci qualcuno che vi ascolta. E vi registra.

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Guido Castellano