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Tecnologia

Personal economy, l'Italia che guadagna con il web

Con un pc o un telefonino, talenti e risorse possono diventare un lavoro o un reddito extra. Alla portata di tutti

È l’evoluzione della vecchia arte d’arrangiarsi, con la tecnologia che dirige talenti e risorse verso binari redditizi o almeno alleggerisce il trauma dei conti a fine mese. È un’economia nuova, in espansione, molto inclusiva. Per farne parte non occorrono spinte o appoggi, né titoli, né particolari investimenti: bastano un computer o un telefonino connessi a internet, più la furbizia di mettere a frutto ciò che si ha già a portata di mano. Se è un appartamento o una stanza, li si affitta a turisti e viaggiatori di passaggio; se un’automobile o uno scooter, li si usa per dare passaggi o consegnare pacchi. Le velleità da chef si sfogano in ristoranti improvvisati a casa propria; le abilità con trapani, scope o lingue, si convertono in lezioni e lavoretti orari.

A intrecciare la domanda con l’offerta, provvede una schiera di siti e app in costante crescita per numero e popolazione. Chiari, semplici, dalla grafica sbarazzina, sono loro, assieme a ciascuno di noi, gli alfieri di questa «personal economy», in cui fare leva su se stessi o i propri beni si trasforma in una fonte facile d’incasso. In cui fidarsi, schivare le fregature, è più agevole grazie a stellette e giudizi.

Perché piace

È il modello TripAdvisor, che classifica locali e hotel in base alle recensioni degli utenti.  Lo si applica non per scegliere dove cenare, ma per capire se potremo ancora riparare un tubo o riaccompagnare uno sconosciuto a casa: dopo ogni prestazione, si riceve un voto e una valutazione scritta. Se sono buoni, si guadagnano punti e posti d’onore nelle classifiche virtuali; se pessimi, meglio cambiare non aria, ma soltanto campo. Così gentilezza, serietà e competenza diventano certificati di qualità pubblici. Lettere di referenze lunghe un telegramma.

La dinamica è socialmente accettata perché indice di duttilità, dinamismo, senso pratico. Piace per le sue ricadute: abbassa le tariffe, amplia l’accesso a servizi utili, sperona con la concorrenza ogni privilegio di corporazione. Con qualche zona d’ombra, perché le regole sono antiche, fumose e pesanti, mentre i controlli troppo deboli. E in tanti, quando è possibile, si fanno pagare in contanti o, con sbadataggine seriale, dimenticano di portare al commercialista le ricevute di servizi e prestazioni effettuate.

Negli Stati Uniti è già la norma

Negli Stati Uniti, dove basta un semplice modulo da compilare (il 1099) per segnalare al fisco ogni entrata, la «personal economy» è prassi: 53 milioni di americani, il 34 per cento dell’intera forza lavoro, sono smaliziati freelance. Secondo alcuni studi, raggiungeranno la metà del totale entro un decennio. Se in Italia la ben più vaga categoria dei lavoratori autonomi si ferma, secondo l’Eurostat, al 23,2 per cento, Oltreoceano il mito del posto fisso è crollato per scelta propria o congiuntura sciagurata: si pilucca qui e lì, diventando grafici, designer, traduttori e fattorini con un clic (Fiverr e TaskRabbit i portali più affollati di proposte), un po’ autisti o valletti grazie a una app (Uber, Lyft, Luxe).

A controllare se si hanno i requisiti in regola, per esempio la macchina a posto o una divisa come si deve, provvedono altri utenti: anche il colloquio di lavoro è rapido e dal basso. Al punto che Amazon sta valutando di pescare in questo enorme e volenteroso bacino di corrieri occasionali per recapitare i suoi pacchi. Eppure siamo ben distanti dai confini dell’ormai ancestrale «net economy», perché i primi attori sono singoli e famiglie, non giganti che fanno affari con i bit; abbastanza oltre la «sharing economy», tanto di moda quanto col fiatone. La rivista Fast Company in un articolo di pochi giorni fa la dichiarava defunta: il suo sognante spirito originale, la prevalenza di baratto, condivisione e prestito agevolati dal web, l’uso in vece del possesso, sono stati schiacciati dagli ingranaggi del capitalismo puro. Senza voler essere melodrammatici, è evidente che il meglio di quel modello è confluito nell’approdo corrente, negli incentivi monetizzabili che garantisce.

La situazione in Italia

In Italia quantificare il valore del fenomeno è prematuro, ma dare qualche numero che sancisca il decollo della tendenza si può: solo su Airbnb, l’indirizzo virtuale dove chiunque ha modo di esibire e proporre la sua casa a una platea mondiale, ci sono oggi quasi 180 mila alloggi disponibili. Sono il 93 per cento in più rispetto a settembre dello scorso anno e il nostro Paese è il terzo mercato di 190 dopo Usa e Francia. «Considerando le principali piattaforme di affitti brevi attive al momento in Italia, una mezza dozzina, possiamo stimare un giro d’affari locale tra uno e due miliardi di euro l’anno» dice Gabriele Cirieco, fondatore della società di consulenza Strategic Advice. Su Gnammo, assieme a VizEat o Bonappetour uno dei siti per offrire a pagamento pasti e posti alla propria tavola, gli utenti arrivano a 110 mila.

Altri 90 mila ne censisce BeMyEye, che retribuisce per visitare i negozi e controllare la presenza di prodotti sugli scaffali o interagire con il personale in incognito e sentirsi un po’ James Bond, mentre start-up formato app come Gogojobo, PonyU e YouPony ci rendono idraulici, elettricisti, insegnanti o corrieri espressi in un istante. C’è Whoosnap con i suoi 30 mila utenti, che elargisce euro per scattare foto dove richiesto da un committente. E Helpling, l’Uber del servizio stiro e dei lavori domestici: ci si iscrive sul sito, si fa un breve colloquio, si dà la propria disponibilità per i giorni e le ore in cui si è liberi. Senza vincoli. Senza obblighi minimi. Si guadagna da 11,90 euro in su ogni sessanta minuti, somma da cui il sito trattiene dal 15 al 30 per cento. «Abbiamo già centinaia di collaboratori: dal portinaio al dipendente dell’hotel che vuole arrotondare, fino ai freelance puri. E accettiamo nuove candidature» dice Alberto Cartasegna, amministratore per l’Italia. Presa da sola, questa come le altre piccole realtà, sono cittadine del lavoro, ma insieme formano una penisola. Precaria, indefinibile, che però di questa flessibilità polverizzata fa punti d’orgoglio e di forza.

Un passaggio dalla Francia

Storia a sé la scrive la francese BlaBlaCar, fresca beneficiaria di un finanziamento da 200 milioni di euro. Per una società europea, un record. Ha 20 milioni di utenti in 19 Paesi, permette di risparmiare su benzina e pedaggio ospitando altri passeggeri sulla propria auto, non smette di crescere sulle principali tratte nostrane: più 76 per cento di viaggi ad agosto sulla Torino-Milano rispetto a giugno, più 71 per cento tra Milano e Firenze e più 65 per cento tra Bologna e la capitale.

A ulteriore riprova che quando possono tagliare i costi grazie al web, gli italiani non si tirano indietro. Salgono a bordo. Lo confermava già nell’aprile del 2013 una ricerca della Doxa: il 48 per cento degli intervistati era propensa ad affittare per brevi periodi la sua abitazione, l’83 per cento a dividere le spese dell’auto, un punto in meno di quanti avrebbero volentieri cucinato per ospiti paganti. Se non è un plebiscito, poco ci manca.

Gli ostacoli

Peccato che tra buona volontà e pura pratica si sollevino barriere non indifferenti. Se si guadagnano più di 5 mila euro in un anno, cioè circa 400 in un mese, serve la partita iva e bisogna scegliere un mestiere di riferimento: «Abbinare più codici attività, per esempio imbianchino e giardiniere è sostenibile, ma imbianchino e insegnante proprio no» avverte il tributarista Lorenzo Rigoni. Di fatto, rispettando al dettaglio le regole, flessibilità addio. Inoltre, iniziative come Uber Pop che trasformano i cittadini in tassisti, complici rivolte e pressioni di lobby coriacee, sono state messe in freezer; altre sono finite nella morsa di schemi del passato: il ministero dello Sviluppo Economico, con una risoluzione datata aprile 2015, ha sottolineato che quanti preparano «pranzi e cene a domicilio in giorni dedicati e per poche persone, trattate come ospiti personali, però paganti» sono soggetti ad autorizzazioni e obblighi tipici dei ristoranti aperti al pubblico.

«Sono principi vecchi per un settore nuovo. Paragonare il social eating a un esercizio commerciale è un errore di fondo» tuona Walter Dabbico, cofondatore di Gnammo. Che aggiunge: «Con questi limiti si finisce per castrare occasioni di lavoro». Il servizio e i suoi competitor comunque non si fermano anche perché, salvo rare eccezioni, chi dovrebbe provvedere ai controlli non suona il campanello in attesa di regole chiare.

Oltre le barriere

Che le regole siano più snelle lo chiedono dal ministero dell’Economia e lo invoca Marco Pierani di Altroconsumo, in nome e per conto dei 375 mila soci di un’associazione molto coinvolta sul punto: «Non si devono tagliare piedi e gambe» afferma Pierani «a opportunità che alleggeriscono il bilancio familiare, abbattono i costi fissi dei beni, segnano l’evoluzione del ruolo del consumatore, che diventa al tempo stesso fornitore e fruitore di servizi. Bloccare questi flussi significa condannarci a un’economia da terzo mondo». 

Il ddl concorrenza ora in discussione alla Camera avrebbe potuto mettere un po’ d’ordine, ma Sergio Boccadutri, coordinatore dell’area innovazione del Pd, indica un’altra strada: «Sto lavorando» spiega «per costruire una norma quadro ad hoc che preveda per ogni piattaforma una policy a garanzia doppia. Di chi la usa per proporre i suoi servizi e, allo stesso tempo, dei consumatori destinatari delle singole offerte». Boccadutri vede nell’Antitrust l’autorità giusta per individuare i requisiti necessari di volta in volta per operare in Italia: «È un campo ad alto tasso di innovazione e sperimentazione. Regolare con una legge ogni singolo settore sarebbe impensabile». Come appare sensato non lasciarlo in ostaggio di vincoli da età analogica. Anche le amministrazioni locali hanno un ruolo in questo processo: la Regione Lombardia, per dire, ha appena classificato la condivisione delle case come un’attività non professionale, semplificando o cancellando i doveri a carico di chi affitta un appartamento, dalla notifica della presenza degli ospiti agli obblighi di segnaletica fuori dalle abitazioni. 

E le tasse?

Altrettanto centrale per un’affermazione sana del fenomeno, è il tema fiscale. Le piattaforme straniere guadagnano trattenendo una percentuale su ogni transazione, ma pagano in Italia solo le tasse per le attività di marketing e promozionali. Spiccioli. Il grosso dei guadagni finisce all’estero dove le aliquote spesso sono più basse, mentre l’erario perde un grosso gettito. Per esempio, nel 2013, Airbnb ha registrato un fatturato di appena 1,3 milioni di euro nel nostro Paese. Il grosso degli introiti locali è finito negli Stati Uniti.

Un po’ com’è prassi con i grandi colossi del web, da Google a Facebook. Non a caso il Governo sta accelerando sulla «digital tax» che potrebbe entrare a regime già nel 2016 e portare nelle casse anche 3 miliardi di euro annui, operando, è una delle ipotesi in discussione, una ritenuta del 25 per cento su tutte le transazioni on line. «È auspicabile un intervento governativo che preveda una tassazione equilibrata senza uccidere il mercato, di cui è evidente la rilevanza tanto per gli operatori quanto per gli utenti» dice Cirieco.

Sempre nuove idee

Eppure questa concorrenza se non sleale almeno impari non spaventa le realtà tricolore, conquistate dal potenziale della «personal economy». Giovanni Di Mambro, per esempio, ha solo 21 anni ed è uno dei ragazzi dietro Moovenda: coordina un’orchestra di fattorini occasionali che tra Roma e Milano ritirano il cibo dai ristoranti e lo portano a casa di chi non ha voglia di cucinare. «Guadagnano fino a 15 euro l’ora» spiega Di Mambro «e decidono quando e quanto lavorare entrando nella nostra applicazione». Come gli autisti di Uber Pop prima dello stop.

Altri motorini formano lo sciame di Scooterino, servizio per Android e iPhone appena lanciato nella capitale dal 22enne italoamericano Oliver Page: si condivide un percorso su due ruote, si ottiene un feedback e un rimborso spese settimanale tramite bonifico. Nell’insensato traffico dell’Urbe, può attecchire bene. Ha invece già fatto due volte il giro del mondo Sailsquare, community con 30 mila utenti: chi ha una barca a vela pubblica la proposta di una vacanza, chi vuole si iscrive, paga, si leva le scarpe e salta a bordo. Da gennaio a oggi sono state percorse 38 mila miglia nautiche grazie a questo Airbnb del mare, che permette di lavorare e guadagnare in un contesto non proprio disagevole. Più che arte d’arrangiarsi, è puro genio italico amplificato della rete.

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Marco Morello

Mi occupo di tecnologia, nuovi media, viaggi, società e tendenze con qualche incursione negli spettacoli, nello sport e nell'attualità per Panorama e Panorama.it. In passato ho collaborato con il Corriere della Sera, il Giornale, Affari&Finanza di Repubblica, Il Sole 24 Ore, Corriere dello Sport, Economy, Icon, Flair, First e Lettera43. Ho pubblicato due libri: Io ti fotto e Contro i notai.

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