Google condannato per diffamazione in Australia. È come un editore
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Google condannato per diffamazione in Australia. È come un editore

Un promoter musicale australiano ha denunciato Google per alcuni contenuti diffamatori indicizzati dal motore di ricerca. La corte ha stabilito un risarcimento di 200.000 dollari

Ci sono voluti tre anni, ma alla fine Milorad Trkulja ha avuto giustizia. Una giustizia confusa, capziosa, che trascina al banco degli imputati un soggetto che per definizione non può considerarsi responsabile di diffamazione: Google. Milorad Trkulja è un promoter musicale australiano, pochi anni fa ha denunciato Google per diffamazione, ieri una Corte australiana ha stabilito che il colosso di Mountain View deve pagargli 200.000 dollari di multa. Com’è possibile?

La storia, a grandi linee, è questa: Nel 2004 Trkulja è in un ristorante, quando scoppia una sparatoria e viene raggiunto da un colpo di pistola. Trkulja non ha rapporti riconosciuti con la criminalità di Melbourne, si trovava lì per caso, ma si sa come vanno queste cose: sei un tipo in vista, hai parecchio denaro, ti sei beccato una pallottola, vorrà dire che sei un gangster. Questa favola fa presto il giro della Rete, e il risultato è che un giorno, mentre cerca il suo nome su Google, Trkulja vede la sua faccia e il suo nome collegati a siti che parlano di criminalità. Si dice che la sparatoria al ristorante fosse una regolazione di conti, che una banda rivale volesse Trkulja morto e avesse assoldato un sicario per farlo fuori.

Nel 2009, Trkulja sguinzaglia il suo avvocato che si rivolge a Google per richiedere la rimozione immediata del materiale diffamatorio. Google, attenendosi rigorosamente alla sua politica, informa l’avvocato che se si vuole che il materiale sia rimosso, ci si deve rivolgere al proprietario del sito incriminato. Trkulja non ci sta e decide di risolverla a carte bollate. Trkulja non è un querelante alle prime armi, lo scorso marzo, per lo stesso motivo ha già denunciato e messo in ginocchio Yahoo!, ottenendo un risarcimento di 225.000 dollari. Davanti al giudice, Google si difende ricordando che non si può ritenere un algoritmo responsabile di diffamazione, insomma, un motore di ricerca non può essere giudicato come un editore.

Ma la corte australiana non è dello stesso avviso, condanna Google a una multa da 200.000 dollari. “I risultati di ricerca di Google sono un riflesso dei contenuti e delle informazioni disponibili sul Web” si legge nel comunicato ufficiale di Google “I siti nei risultati di ricerca di Google vengono controllati dai loro webmaster, non da Google.

Non è la prima volta che Google viene preso di mira per questioni simili. A fine marzo, un impiegato giapponese si è presentato in tribunale accusando Google di avergli fatto perdere il lavoro . Ancora una volta, c’era di mezzo un’improbabile affiliazione con la malavita. Fino ad oggi Google ha dribblato agilmente queste querele. Il caso australiano non ha effetto vincolante per gli altri paesi, ma potrebbe creare un precedente pericoloso.

Per capirlo basta leggere le motivazioni fornite dalla corte: “Nello specifico, il querelante sostiene che Google Inc abbia pubblicato intenzionalmente il materiale in questione poiché, anche se si tratta di sistemi automatizzati, quei sistemi sono la conseguenza di programmi informatici, scritti da esseri umani, i cui programmi fanno esattamente quello che Google Inc e i suoi impiegati intendono e richiedono. Su questa base, il querelante sostiene che ogni volta che il materiale oggetto di querela viene scaricato o decifrato, Google Inc si sta rendend responsabile di una sostanziale pubblicazione.

Se davvero Google può essere trascinato in tribunale e costretto a pagare per contenuti pubblicati da altri, il paesaggio che si prospetta all’orizzonte è ben poco invitante per chi produce e convide contenuti in Rete. Come abbiamo già osservato quando si parlava di azioni coercitive da parte dei detentori di copyright, se Google (e come Google altri portali, tra cui lo stesso Facebook) fosse costretta a monitorare nel dettaglio ogni singola associazione di parole, dovrebbe schierare in campo una potenza di calcolo (o di manodopera) difficilmente sostenibile. L’alternativa più plausibile, sarebbe l’introduzione di sistemi di censura preventiva, che andrebbero di fatto a mettere la mordacchia al Web, mettendo a serio repentaglio la libera espressione in Rete.

In attesa che Google decida se ricorrere in appello, è giunto il momento di studiare soluzioni legislative alternative per dirimere in modo ragionevole questo tipo di problematiche.

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Fabio Deotto