Google, ecco come funziona il cervello di Big G (in 5 punti)
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Google, ecco come funziona il cervello di Big G (in 5 punti)

Presto Google saprà prendere decisioni al posto nostro. Non cambierà solo la ricerca, ma anche il nostro modo di pensare

Sei preoccupato. O forse sei solo un po’ paranoico, non l’hai ancora capito. Fatto sta che da qualche tempo a questa parte, Google ti preoccupa. L’altro giorno, per fare un esempio, ti sei ritrovato sul telefonino un promemoria sul volo che dovevi prendere per Malta, ed è stato un bene, perché ti eri bellamente dimenticato di fare il check-in online, e per poco non hai rischiato di dover pagare un extra. Ma, insomma, per quanto ti sia stato utile, non riesci a toglierti la sensazione che qualcuno ti stia controllando, che conosca tutti i tuoi programmi, tanto da essere in grado di picchiettarti sulla spalla come una madre apprensiva che sa quanto puoi essere smemorato.

Ma non è finita. L’altra settimana volevi cercare un articolo che avevi letto qualche tempo prima, non hai fatto in tempo a provare una keyword che Google ti ha servito in automatico il titolo esatto del pezzo. Ogni volta che vai su Maps, poi, la cartina di Milano è costellata dai posti in cui vai più spesso, YouTube ormai ti consiglia i video prima che tu decida di cercarli, mentre in Rubrica trovi contatti che non ricordavi di aver salvato.

Insomma, più tempo passi connesso, più hai l’impressione di avere un secondo cervello, delocalizzato rispetto al tuo corpo, che funziona in totale autonomia dal primo.

Quella che potrebbe sembrare una paranoia da cospirazionista, rispecchia in realtà un progetto a lungo termine su cui Google sta lavorando da anni: l’assemblamento di una rete neurale talmente potente e vasta, da saper funzionare come un vero e proprio cervello.

Nei prossimi 5 punti vi spieghiamo come il cervello di Google sta crescendo e come cambierà il nostro modo di vivere (e pensare) in rete.

1. Un software che impara come un bambino

Se a Google possono permettersi di affermare di stare reinventando il cervello umano senza essere coperti di insulti, è perché in tutto il panorama hi-tech attuale, Big G è l’unica azienda che può plausibilmente porsi un obiettivo tanto ambizioso.

Non si tratta di una questione di soldi, di rapporti di forza o di risultati raggiunti, il fatto è che negli ultimi anni Google è riuscito a tirare in secca tutti i migliori cervelli del settore, lasciando sostanzialmente la concorrenza a bocca asciutta. A partire da Geoffrey Hinton, il ricercatore inglese che ha sviluppato il cosiddetto unsupervised learning (apprendimento non supervisionato), un approccio rivoluzionario nel campo delle reti neurali, che consentiva finalmente a un algoritmo di associare significati ad alcuni elementi informazionali senza bisogno di una continua imbeccata da parte dell’essere umano.

Questo approccio, al tempo correttamente paragonato al modo con cui un bambino impara a dare nomi alle cose, è alla base di quell’apprendimento automatico di cui Google è oggi l’esponente più all’avanguardia.

2. Parlare di cervello non è esagerato, parola di Jeff Dean

Prima di Hinton, Google aveva già reclutato alcuni fenomeni nel campo delle intelligenze artificiali come Peter Norvig, Sebastian Thrun (tra gli ideatori dell’auto senza pilota di Big G) e, non ultimo, quel geniaccio di Ray Kurzweil. Ma è soprattutto merito di Jeff Dean (praticamente il Chuck Norris del mondo informatico), se il progetto di apprendimento approfondito di Google viene informalmente chiamato Google Brain.

Dean è stato arruolato da Google già nel 1999, ed è stato lui, nel 2012, ad alzare l’assicella delle ambizioni di Google al livello odierno. Sua è l’idea di creare una rete neurale immensamente grande, che potesse raggiungere una capacità di calcolo nettamente superiore agli esperimenti condotti fino ad allora.

Sotto la sua supervisione Google ha creato un sistema composto da 16000 microprocessori costituendo una rete da miliardi di connessioni che, nel giro di pochi mesi, si è dimostrato in grado di catalogare centinaia di video YouTube senza che nessun essere umano intervenisse per spiegare al “cervello” la differenza tra un cane e un gatto, o tra una motocicletta e una bicicletta.

3. Quando è Google a farti le domande

Ma se davvero Google, parafrasando Pinocchio, vuole smettere di essere un semplice algoritmo per diventare un cervello vero, per arrivare a quel punto ha ancora bisogno di essere imboccato da vere teste pensanti, in modo da imparare quali domande si pongano effettivamente gli esseri umani e in quali modi sia possibile anticiparle.

Per rendere ciò possibile, dal 2011 Google ha attivato un progetto chiamato DIN (Daily Information Needs) che consiste nel selezionare ogni anno circa un migliaio di volontari americani (e centinaia di altri paesi) a cui chiedere, giorno per giorno, quali domande porrebbero a Google se il motore di ricerca fosse in grado di rispondere a qualsiasi quesito.

Naturalmente, DIN consente a Google di farsi un’idea di come variano le esigenze da paese a paese (ad esempio, mentre in USA la gente è interessata a sapere che tempo fa in un dato giorno, in modo da sapere cosa indossare, i giapponesi sono più interessati a sapere quanta umidità sia presente nell’aria, per capire quando stendere il bucato).

Allo stesso tempo, DIN è in grado di rivelare in che modo cambino le esigenze degli utenti a seconda della situazione politico-economica del momento. Non è un caso che negli ultimi tempi, durante le interrogazioni DIN si registrino sempre più richieste relative alla ricerca di impiego o alla gestione dell’orario di lavoro.

4. Un cervello non deve solo apprendere, ma anche decidere

Fino a qui tutto bene. Il cosiddetto Google Brain sembra una adorabile intelligenza artificiale capace di spremersi le meningi al posto nostro per catalogare l’intera realtà esperibile. Ma le ambizioni di Google si spingono molto oltre, e da quando nel 2013 i capoccia di Mountain View hanno acquisito la startup Deep Mind, l’assicella fissata da Jeff Dean è stata di nuovo alzata, questa volta fino a raggiungere un’altezza pericolosa.

Rilevare DeepMind ha significato arruolare Demis Hassabis, altro prodigio del settore AI, noto tra le altre cose per essere riuscito a insegnare a un’intelligenza artificiale a giocare ai videogiochi. Questa cosa all’inizio ha fatto sorridere molti, ma solo fino a che non è divenuto chiaro cosa Hassabis avrebbe potuto fare al Google Brain.

Insegnare a un cervello digitale a giocare ai videogiochi significa insegnargli a prendere decisioni, dunque ad agire, dunque a influire sul mondo esterno, dunque – volendo aguzzare la vista – dargli la possibilità di scrivere linee di codice e, sostanzialmente, spezzare le catene che lo vincolano all’uomo.

Non è un caso se, prima di accettare l’offerta di Google, Hassabis abbia voluto che Big G firmasse un accordo in cui l’azienda si impegna a non sfruttare mai le conoscenze apportate da DeepMind a scopi bellici e a costituire una commissione ad hoc che vegli sugli sviluppi di quella che secondo alcuni diventerà una Macchina di Turing Neurale.

5. Dalla ricerca passiva, a quella proattiva

Ma prima di trasformarsi in un moloch diabolico capace di controllare ogni minuscolo aspetto della nostra esistenza, il cervello di Google verrà usato per rivoluzionare il concetto di ricerca.

Per avere un’idea di come la tavola rotonda di saggi reclutata da Google potrà cambiare il suo motore di ricerca, è sufficiente ascoltare le parole dello stesso Hassabis, che di fronte alla richiesta di preconizzare il futuro di Google Search si lancia in un esempio inquietante:

Nel mondo esistono molti più libri che potrei trovare affascinanti, di quanti sarei in grado di leggerne in una vita intera. Perciò perché mai ogni volta che devo fare un lungo volo o andare in vacanza devo pensare a quale libro potrei portarmi da leggere? Questo non dovrebbe mai succedere. Credo che cose di questo tipo dovrebbero essere automatizzate.

È chiaro che quello di cui sta parlando Hassabis non è più un motore di ricerca, è un cervello artificiale progettato per prendere decisioni al posto dell’uomo, per fornirgli informazioni che non ha richiesto, per fargli da balia digitale, insomma, consentendogli di correre sempre più veloce, in un mondo che continua a premiare l’immediatezza a discapito del raziocinio.

A voler essere catastrofisti, potremmo tranquillamente preconizzare che più il cervello di Google diventerà sviluppato, più ci abitueremo a non utilizzare il nostro. 

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Fabio Deotto