Identità in Rete: basta con l'anonimato
Tecnologia

Identità in Rete: basta con l'anonimato

Francesco Sacco, docente di strategia aziendale alla Bocconi, va controcorrente e spiega perché è necessario rivelare sempre chi siamo

"Sarebbe accettabile, nella vita reale, se chiunque potesse andare in giro presentandosi con un nome falso e firmando contratti senza identificarsi? Ha visto mai qualcuno che usa la carta d’identità di un altro? Se lo fa, non ha certo buone intenzioni".

Francesco Sacco, docente di strategia aziendale alla Bocconi e all’Università dell’Insubria, è un riconosciuto esperto (e autentico appassionato) di tecnologie e guarda con preoccupazione alle posizioni ideologiche a favore dell’anonimato su Internet. Non ha timore di andare contro l’opinione comune del popolo della Rete, che è in agitazione dopo che Facebook e Google hanno fatto capire che l’aria sta per cambiare: niente nomi di comodo, numeri, simboli e altre meraviglie. Bisogna identificarsi per muoversi nel mondo nuovo dei social media.

"È una fase necessaria di sviluppo", spiega Sacco, che prova a storicizzare: "Nel Medioevo gran parte della popolazione non sapeva leggere e non c’erano documenti di identità. Per questo nacque il notaio: doveva certificare quel che c’era scritto nei contratti e l’identità dei contraenti. L'identità era un costrutto sociale".

Ma cosa c’entra con Facebook? C’entra!, insiste Sacco e continua:  A un certo punto gli Stati si sono fatti carico di questo problema. E, parallelamente, ne hanno fatto un perno delle istituzioni di ogni nazione. Non è accettabile che qualcuno mi segua e controlli tutto quello che faccio, ma quando agisco nei confronti degli altri - compro, vendo, attribuisco un rating - è giusto che la mia identità sia tracciabile, anche indirettamente.

Ecco nel nuovo pianeta denominato Internet c’è un problema di infrastruttura identitaria, che non significa potere controllare tutto di tutti, perché è semplicemente impossibile, ma avere uno spazio certo di certezza".

Ma ci sono anche le ragioni del marketing, che valorizza (cioè vende) i profili degli utenti registrati e li vuole quanto più veri possibile.

"Non è proprio così", ribatte Sacco. "Primo: noi utilizziamo gratuitamente servizi che costano. Non siamo obbligati ad utilizzarli perché ci sono quasi sempre opzioni a pagamento. Quindi l’uso commerciale dei profili è un chiaro scambio, di cui forse qualcuno fa finta di non rendersi conto: non si regalano pasti gratis. Secondo: per chi detiene i miei dati di profilazione non è così importante la mia vera identità sul piano commerciale. In genere, sono molto più bravi di quel che si creda a identificarmi (come profilo) dai miei comportamenti più che dalle mie dichiarazioni, che sono dal loro punto di vista potenzialmente sempre incomplete o fuorvianti. Sono un quarantenne che si registra come ventenne? Valgo lo stesso. Dai miei gusti, dai miei comportamenti e dai miei acquisti online emergo chiaramente come un quarantenne che si finge ventenne. Sono loro che mi rivelano attraverso i miei comportamenti".

Tanto rumore, quindi, non sarebbe giustificato solo da questioni di soldi. Facebook ha quasi un miliardo di iscritti, un numero equivalente alla popolazione mondiale all’inizio del secolo scorso. Ovvio che cominci a porsi un problema di trasparenza delle relazioni. Anche se i “falsi” sembrano una percentuale alta di “devianza” (il 9% circa), solo l'1,5% è davvero "indesiderato", una proporzione più fisiologica rispetto al mondo reale. Questo perché squadre di Facebook compiono verifiche costanti sul numero di amici, sulle interazioni e in generale sul livello di attività degli account. Utilizzano software specializzati in grado di individuare i falsi e tanti giovani “smanettoni”. Perché il gioco funziona se resta credibile.

Ecco perché c’è chi sta pensando a una carta d’identità digitale. L’ingegnere Moritz Tolxdorff ha già creato un sito che rilascia la Google+ IdCard. "È giusto avere un’identità digitale, anche un nickname se si vuole, che però permetta di risalire a una persona fisica", conclude Sacco. "Non è necessariamente l'inizio del Grande Fratello ma la fine del medioevo del web. E non solo per il marketing".

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Giovanni Iozzia

Ho lavorato in quotidiani, settimanali e mensili prevalentemente di area economica. Sono stato direttore di Capital (RcsEditore) dal 2002 al 2005, vicedirettore di Chi dal 2005 al 2009 e condirettore di PanoramaEcomomy, il settimanale economico del gruppo Mondadori, dal 2009 al maggio 2012. Attualmente scrivo su Panorama, panorama.it, Libero e Corriere delle Comunicazioni. E rifletto sulle magnifiche sorti progressive del giornalismo e dell’editoria diffusa.  

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