Andrew Keen: "I social media sono Piccoli fratelli"
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Andrew Keen: "I social media sono Piccoli fratelli"

Ognuno di noi con il suo smartphone può controllare il mondo. Ecco l’apocalisse secondo il guru del web Andrew Keen

di Maddalena Bonaccorso

Fragili e smarriti, cyberzombie dell’epoca del grande esibizionismo, navighiamo a vista nel mondo dei social media senza nemmeno capire i rischi cui andiamo incontro. È paurosamente lucido nella sua visione apocalittica della contemporaneità Andrew Keen, «l’anticristo della Silicon Valley», come egli stesso si definisce su Twitter, scrittore e imprenditore, autore del saggio Vertigine digitale, che schiude ai nostri occhi «the dark side» del web lasciandoci disarmati davanti alle nostre vite. Bloccate nel presente, prive del senso della storia, ridotte in totale balìa di qualcosa che nemmeno lo scrittore George Orwell avrebbe mai potuto immaginare. «Viviamo in un mondo di Piccoli fratelli» spiega Keen «molto più inquietante di quello di orwelliana memoria del Grande fratello. Ognuno di noi ha in mano un dispositivo, lo smartphone, che da solo ha quasi più potenzialità di sorveglianza dell’intero regime di 1984. È così difficile capire quanto tutto ciò sia pericoloso e quanto influisca sul nostro modo di rapportarci con la realtà?».

Forse speriamo, come sostiene il visionario Reid Hoffmann, fondatore di Linkedin e che lei cita nel suo libro, che la trasparenza in rete a lungo andare premi la meritocrazia, l’integrità, la reputazione costruita da ciò che gli altri pensano e dicono (e condividono) di noi, non crede? 
Sì, ma trasparenza non deve voler dire totale e continua violazione della privacy e condivisione di ogni momento della nostra vita. Hoffmann crede fortemente nell’impulso sociale, crede che sia innato in tutti noi. Non prende in considerazione il fatto che possa esistere qualcuno che non desidera tenersi sempre in  contatto con gli altri. Questa è una distorsione. Il problema vero sta nella mancanza di un equilibrio fra la naturale attitudine sociale dell’uomo, che tutti possediamo (in questo do ragione a Hoffmann), anche se in quantità molto differenti, e l’orrore della condivisione fine a se stessa, a tutti i costi. In questo senso la trasparenza è corrosiva.

Riguardo alla corrosività della trasparenza, cosa pensa di correnti come Anonymous, o di movimenti come l’italiano M5s di Beppe Grillo?
Sono movimenti che, se da un lato gridano e invocano la trasparenza, dall’altro non sanno dove andare. Non hanno gerarchie, non hanno  organizzazioni strutturate in modo chiaro, sono guidate da leader populisti. Il fenomeno Grillo però è interessante perché ha messo in luce la crisi della realtà e dei partiti politici, questo è vero. Possiamo anche discutere di quanto abbia risvegliato l’interesse e la partecipazione politica della gente. Ma poi, in concreto, uscendo dai blog e dallo streaming, questo movimento vuole distruggere il passato per sostituirlo con che cosa?

In Italia, ultimamente, è stata data la colpa a Twitter anche del fatto che non si sia trovato un rapido accordo sul nuovo presidente della Repubblica. I politici, specie i più giovani, sono stati accusati di ascoltare troppo i «cinguettii» degli elettori. Ma, se fosse vero, non sarebbe un buon segno per la democrazia?
Non necessariamente. Dobbiamo distinguere fra democrazia diretta e rappresentativa. Noi eleggiamo i nostri rappresentanti, loro devono decidere. La democrazia, quindi, esiste comunque. Poi, certo, sapere che i politici ascoltano attraverso Twitter la voce delle persone può anche essere importante.
Però non bisogna lasciarsi trascinare.

Lei è molto critico sui social media, tuttavia usa Twitter...
Lo uso per lavoro e non potrei farne a meno. Sono uno scrittore e Twitter mi porta visibilità, interviste, contatti (anche se non tutti positivi). Ma non uso Facebook, perché lo ritengo invasivo, inutile, un continuo gioco di specchi e di egocentrismi. ()

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