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Foodora: "Vi racconto il futuro del cibo a domicilio"

Colloquio con Eduardo Goes alla guida dell'azienda, che immagina la scomparsa delle cucine casalinghe grazie a consegne veloci di piatti di qualità

da Berlino

Tra i messaggi di WhatsApp e l’ennesima email molesta, sullo schermo del telefono si affaccia una notifica invitante: «La tua ultima riunione è alle 18. Che ne dici di una carbonara a casa per le 21?». Oppure: «Oggi sei stato in palestra, ti meriti la tua pizza preferita. Se vuoi, posso portartela in 20 minuti. O preferisci un’insalatona? Sarà da te in 25». Il mittente non è una compagna premurosa o un amico precisino forse un po’ invadente, ma l’applicazione del servizio di cibo a domicilio. Che sincronizzandosi con l’agenda sullo smartphone, conosce i nostri movimenti e può proporci pietanze in linea con i nostri gusti, abitudini, indulgenze d’abboffarci o smanie di rimanere in forma.

Non si tratta di uno scenario di fantasia, ma uno dei prossimi approdi di Foodora, tra i principali operatori nella consegna dei pasti, presente in 65 città di 10 Paesi, tra cui 1.200 cucine tricolore divise tra Milano, Torino, Firenze e Roma. È parte a sua volta del gruppo Delivery Hero, gigante del settore attivo in 40 nazioni, con la capacità potenziale di saziare 2,7 miliardi di stomaci: «Facendo leva, presto, su un raffinato sistema di raccomandazioni personalizzate» anticipa Eduardo Goes, il 41enne di San Paolo che tiene il manubrio dell’azienda. «Oggi la scelta parte dal ristorante; entro un anno» assicura «muoverà dal piatto». Da scegliere in funzione del contenuto calorico o di un capriccio del momento; del prezzo, della presenza o assenza di carne, di eventuali intolleranze o vincoli dietetici. O magari, altra ipotesi allo studio, delle raccomandazioni degli amici sui social network. «Così» osserva il manager brasiliano «potremo usare la app con fiducia quando ci troviamo all’estero, in una città sconosciuta».

Foodora-HqInterno del quartier generale di Foodora a BerlinoFoodora

Bontà e velocità

A garantire qualità e celerità, è la piattaforma stessa, tramite la sua attività di vigilanza su affidabilità e puntualità degli chef. Un monitoraggio in grado, già oggi, di contenere i ritardi superiori ai 10 minuti in una forbice che non sfora il 10 per cento degli ordini totali. La strategia, severa ma efficace, è escludere i cuochi non all’altezza degli standard, che collezionano lamentele o si attorcigliano in insopportabili lungaggini.

Panorama è dentro la sede di Berlino della società, un edificio austero con mattoni a vista all’esterno, interni candidi e parecchio luminosi. È in pieno centro, a una passeggiata dal Duomo e accanto al suggestivo lungofiume della Sprea. Qui, sparse su cinque piani, lavorano mille persone; tutto il gruppo vale circa 4,4 miliardi di euro, ma il clima è da start-up fin troppo entusiasta. Sarà perché l’ottimismo che si respira tra mobili dal design sobrio e quadri di golosità internazionali, pare fondato: «In media, un individuo si fa portare a domicilio tra i 16 e i 20 pasti l’anno. Ma ne consumiamo un migliaio» sottolinea Goes, sottintendendo che i margini di crescita sono notevoli e la migrazione verso dinamiche digitali del tutto logica: «Il 95 per cento delle volte» prosegue «l’ordine si fa al telefono. Che senso ha? È macchinoso per il cliente e il ristoratore».

Raddoppio in quattro anni

Buon senso a parte, gli danno ragione i dati del sito di statistiche Statista.com. Nel nostro Paese, a fine anno il settore varrà già 3 miliardi di euro; per il 2021, la stima è di 6,8 miliardi. Oltre il doppio. Decisivo è stato il salto di qualità delle proposte servite, da pizze unte ed hamburger bruciacchiati per studenti allergici ai fornelli, a delizie di livello. Coccole per il palato per le quali si è disposti a spendere: il carrello medio globale di Foodora, nel 2016, è stato di 27 euro. Non poco. Con un nesso da tenere in conto: l’aumento parallelo della flotta di fattorini, i ragazzi che sfrecciano per le città carichi di sushi, risotti e dintorni. Solo il gruppo Delivery Hero, ne conta 15 mila a livello globale. Un esercito. Che in Italia, più di una volta nei mesi scorsi, ha scioperato per il passaggio dalla retribuzione oraria a quella a cottimo, pilastro e motore della cosiddetta «on demand economy», del meccanismo che fa funzionare Uber e tutti quei servizi in cui la paga varia con la frequenza della domanda e la tempestività del servizio reso.

Foodora stipula con i suoi corrieri un contratto di co.co.co. che prevede contributi Inps, assicurazione Inail, 4 euro a consegna più le mance. Sulla base della disponibilità offerta da ognuno, li recluta quando i suoi algoritmi prevedono, per ciascuno, una media di almeno due ordini ogni sessanta minuti. Scansando il sovraffollamento se le richieste languono: «Tale sistema» chiosa il manager «garantisce una remunerazione competitiva e quella flessibilità che cercano. Per esempio, per poter fare un altro lavoro».

Foodora-riderDue rider per le strade di MilanoFoodora

Il segreto è la logistica

Seduto composto a un lungo tavolo della caffetteria dei suoi uffici berlinesi, Goes sceglie sempre con cura le parole, sbottonandosi appena quando racconta della sua passione per la velocità: auto sportive, go kart che raggiungono i 180 chilometri orari in pochi attimi. «I miei colleghi» dice in mezzo a un sorriso «sostengono che io ami la logistica perché, come in pista, la differenza la fa il tempo, è questione di secondi». Ottimizzare le consegne in vista del boom a venire, resta infatti la primaria sfida di Foodora e dei suoi concorrenti. Un approdo che include vari percorsi, inclusi ausili robotici: «Ad Amburgo» spiega «stiamo sperimentando piccoli veicoli che si guidano da soli. Ma non sono convenienti perché obbligano ristoratori e clienti a uscire per strada». Mentre il fattorino entra nel locale, sa prendere l’ascensore, bussa all’uscio di casa. «Inoltre, alla luce delle norme attuali, i nostri corrieri sono tre volte più rapidi delle vetture senza conducente». Sarà magari provvisorio, comunque è un altro punto a favore dell’elemento umano.  

Addio alle cucine domestiche?        

Fedele ai numeri, arroccato sulla solidità dei dati, il dirigente brasiliano cova anche una visione rivoluzionaria: da una parte, immagina nuove generazioni di ristoranti dedicati alle sole consegne a domicilio, senza servizio al tavolo, capaci di scansare l’imprevedibilità dell’afflusso dei clienti in sala, di dare attenzione totale a preparazioni e confezionamento dei piatti. In Inghilterra, per dire, sta già succedendo. Dall’altra, si spinge fino ai confini dell’utopia: con la discesa dei prezzi dei piatti sulle app (conseguenza diretta dell’aumento della domanda), con la certezza del momento del recapito e menu tagliati su misura del gusto del singolo utente, non avremo bisogno di metterci a fornelli. «Sarà soltanto un hobby, una passione» scommette: «Riflettiamoci un attimo. Oggi nessuno pensa a cucirsi i vestiti da solo, in passato era l’abitudine». Ecco il sogno molto interessato di Eduardo Goes: case del futuro senza più cucine.

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Marco Morello

Mi occupo di tecnologia, nuovi media, viaggi, società e tendenze con qualche incursione negli spettacoli, nello sport e nell'attualità per Panorama e Panorama.it. In passato ho collaborato con il Corriere della Sera, il Giornale, Affari&Finanza di Repubblica, Il Sole 24 Ore, Corriere dello Sport, Economy, Icon, Flair, First e Lettera43. Ho pubblicato due libri: Io ti fotto e Contro i notai.

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