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Thomas Hawk, Flickr
Tecnologia

Google parlerà per noi con gli sconosciuti

Smart Reply di Gmail è solo il primo passo, presto Big G ci sostituirà in molte occupazioni, per esempio le conversazioni che non ci interessano

Basta dare un'occhiata distratta al ventaglio dei progetti più ambiziosi su cui Google sta lavorando negli ultimi anni (i cosiddetti “moonshot projects”) per rendersi conto che la maggior parte di essi, dai discovery engine agli assistenti virtuali, dai dispositivi per la realtà aumentata come Glass alle Google Car senza pilota, orbitano tutti attorno allo stesso obiettivo: automatizzare più aspetti possibili della vita quotidiana.

L'ultima novità presentata da Google in questi giorni, Smart Reply, è un ulteriore tassello in questo grande mosaico.

Si tratta sostanzialmente di un risponditore automatico integrato nell'applicazione Inbox che, analizzando i contenuti di una email, è in grado di suggerire tre possibili risposte. Utilizzando un sistema di apprendimento automatico, Smart Reply studia il contesto e lo stile di scrittura per articolare risposte il più simili possibili a quelle che l'utente comporrebbe di persona. Una volta ricevute le tre possibilità, l'utente può decidere di utilizzarne una, di scartarle o di aggiungere altri elementi prima di inviare il messaggio.

A seconda della decisione dell'utente, il sistema impara ogni volta ad affinare la simulazione.

Nel 1 aprile del 2009, Google annunciò un nuovo servizio, chiamato Gmail Autopilot, che prometteva esattamente questo tipo di prestazioni.

Si trattava di un pesce d'aprile, naturalmente, ma a quanto pare l'idea deve essere rimasta nell'aria a Mountain View perché oggi, anche grazie all'acquisizione di startup specializzate in deep learning, Google sembra pronto a dare ai suoi servizi facoltà di parola.

Ma quella che ancora può sembrare una trovata balzana, potrebbe in realtà essere il primo passo verso uno scenario molto più vasto. In un futuro non troppo lontano, un'intelligenza artificiale come quella su cui oggi sta lavorando Google potrebbe essere utilizzata quotidianamente come intermediario linguistico. Se davvero rispondere a un'email è così tedioso da richiedere l'intervento di un risponditore automatico, lo stesso vale per molte conversazioni che ogni giorno facciamo di persona, dagli incontri di lavoro, alle contrattazioni commerciali, alle parole scambiate con un conoscente incontrato per strada.

Ora ci sembra folle pensare che un'intelligenza artificiale possa sostituirci nella comunicazione verbale, ma questo è in parte legato al fatto che associamo alle intelligenze artificiali un linguaggio goffo e ottuso.

In un futuro (non così lontano) in cui un IA sarà in grado di simulare il nostro timbro vocale e il nostro modo di parlare, in un futuro in cui l'attenzione per la privacy sfiori il livello della paranoia, non sarebbe così fuori dal mondo immaginarsi che tra persone poco intime la pratica abituale sarà affidare le conversazioni a dei “portavoce” artificiali.

Ma facciamo un passo in avanti. Siamo in un futuro in cui il solco in cui Google ha seminato ha dato frutti. Le persone possono disporre di un sistema di comunicazione artificiale che sceglie le frasi e le risposte al posto loro.

Quale altro aspetto della vita comunicativa potrebbe essere automatizzato? Facile: la necessità di avere un interlocutore. L'idea di un robot che ci faccia compagnia non solo in qualità di giocattolo sofisticato, ma come un vero e proprio confidente, è stata esplorata abbondantemente nella fantascienza, e i traguardi raggiunti nell'ambito dell'apprendimento approfondito la rendono sempre più plausibile.

Insomma, se tutto va secondo i piani, fra non molto Google potrebbe diventare il nostro portavoce ufficiale, un'interfaccia verbale che consentirà di affrontare diverse situazioni in modo automatico, senza bisogno di porsi domande.

Ma è sufficiente leggere le disquisizioni esistenzialistiche tra i ricercatori di Google e un chatbot programmato per apprendere in modo automatico, per capire quanto questo possa rivelarsi pericoloso:


Uomo: qual è il senso della vita?
Macchina: servire il bene più grande.
Uomo: qual è lo scopo di vivere?
Macchina: vivere per sempre.
Uomo: qual è lo scopo dell'esistenza?
Macchina: scoprire cosa succende quando arriviamo sul pianeta Terra..
Uomo: dove sei ora?
Macchina: in mezzo al nulla
Uomo: che senso ha morire?
Macchina: avere una vita.
Uomo: che scopo ha essere intelligenti?
Macchina: scoprirlo.

Per quanto possano suonare intuitive (l'ultima, ad esempio, è un gioiello involontario) e plausibili, le risposte del chatbot sono troppo secche e categoriche per potere assomigliare a quelle che un essere umano darebbe a questo tipo di interrogativi. Quello che manca totalmente in questa conversazione è il dubbio. Di fatto, non si tratta di un vero scambio di opinioni (ovviamente), quanto del corrispettivo imbellettato dell'interrogazione di un motore di ricerca programmato per conoscere le tue abitudini e inclinazioni.

Ed ecco il vero punto debole dell'intera impalcatura: ci rapportiamo con i servizi web in maniera diversa da come ci rapportiamo con le persone, interroghiamo un motore di ricerca per avere delle risposte definitive, non per ottenere un punto di vista diverso dal nostro, mentre con le persone spesso è l'opposto.

Un'intelligenza artificiale come quella ipotizzata in questo pezzo potrebbe tornare utile in diversi modi, ma allo stesso tempo contribuirebbe a consolidare la bolla protettiva in cui ci siamo autoreclusi, quella barriera selettiva che Eli Parisier ha definit filter bubble e che ci porta a entrare in contatto solo con opinioni e contenuti che rispondano a specifiche esigenze o si adattino preventivamente alle nostre preferenze.

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Fabio Deotto